* Giancarlo Majorino (Milano, 1929). Poeta e critico letterario. Ha insegnato storia e filosofia nei licei ed è ora docente di Estetica presso la Nuova accademia di belle arti e presidente della Casa dell poesia di Milano. Tra le sue numerose pubblicazioni: La capitale del Nord (Schwarz, 1959), Autoantologia (Garzanti 1995), Posie e realtà 1945-2000 (Tropea, 2000) e Viaggio nella presenza del tempo (Mondadori,2008).
La poesia da lontano.
Qualche ragionamento su Poesie e realtà 1945 - 2000 di Giancarlo Majorino.
Poesie e realtà 1945 - 2000 di Giancarlo Majorino è un saggio sulla poesia
italiana del secondo Novecento. Majorino vi ha lavorato per cinque anni,
mettendo alla prova le sue coordinate critiche da varie angolazioni e a più
riprese non soltanto nella scelta degli autori e dei testi, ma in affreschi
periodizzanti storico-culturali e in calibrati giudizi particolari disseminati
senza preoccupazioni scolastiche, come in una ininterrotta chiacchierata.
La struttura del libro è triadica, ma libera da
preoccupazioni dialettiche. Nell'Apertura vengono accennate alcune idee
di metodo. Nella corposa sezione centrale, Opere e vissuti - articolata
a sua volta in tre zone cronologiche: L'evidenza della realtà, Il
sogno critico e l'arrivo delle cose, L'epoca del gremito - gli
autori e i testi vengono interpretati più da vicino. L'ultima parte procede ad
una Chiusura, "falsa", tanto è affollata e problematica[1], ironica nel provvisorio
commiato[2] e testarda nell'evocare l'altro,
non metafisico ma tutto corporeo, della
poesia[3].
Se guardiamo al genere cui appartiene il
libro (antologia di poesie), i suoi meriti sono indubbi: non c'è paragone con
le incessanti ruminazioni sulla poesia che, in un vuoto di riflessione
critica, avvengono in cenacoli e caffè
letterari di ogni metropoli e periferia; nulla o ben poco d'impressionistico o
"amicale"[4]
vi traspare; il discorso non è sintonizzato sulle parole-chiave della critica
accademica (“avanguardia”, “postmodernità”, “canone”); e non solo nel titolo i due poli (poesie,
realtà), che, specie negli ultimi decenni,
si è fatto di tutto per divaricare e separare, vengono accostati e
mantenuti in tensione. Si potrebbe dire con una battuta che Majorino fa l'elogio
di una congiunzione contro la moda del disgiungere.
Riproporre poi concetti “medi” (criticità, ambiguità della letteratura.
autonomia ed eteronomia dell’arte), da troppi liquidati, quasi saldi sui
banconi della Svendita Totale, è operazione saggia e confortante. Infine -
altro merito - il confronto col passato non è eluso.
Abbiamo oggi, infatti, due Poesie e
realtà; e il confronto fra Poesie e realtà 1945-2000 e il suo
antecedente Poesie e realtà 1945-1975, uscito da Savelli nel 1977, è
ineludibile. Lo affronta, prima di tutti
e in modi non autocelebrativi, lo stesso autore.
Dopo più di un ventennio, il “punto di vista
dell’oppositore” (25) operante nell'antologia savelliana del '77 è ripudiato. È l'affermazione più forte dei
ragionamenti di fondo del libro. Non è di poco conto per uno della generazione
di Majorino staccarsi dal moto oppositivo che ha caratterizzato l'intero
Novecento e che, in forme più sotterranee o indecifrate, sembra a molti sussistere. Al suo posto, egli ritiene indispensabile uno spostamento:
“la necessità di togliersi e cercare di guardare le cose da un punto di vista
più magnanimo, compresa la propria scrittura. Altrimenti ogni no diviene
il no di un sì, e quindi ne dipende”[5].
È una
ritrattazione? una conversione ad altri modi di pensare più o meno
"post"?
Non pare. Majorino nulla
concede alle tesi nichiliste del caos, della confusione, del venire meno di
ogni principio speranza. Resta fra i pochi che continuano a ritenere
“fondamentali certe lucide e generose idee di Marx, e, non meno, con esse e
oltre ad esse, la tessitura ininterrotta di lotte, rivolte, sacrifici, sogni di
persone che tentarono e tentano, spesso rischiando la vita, di mutare questo
cosmo ingiusto” (26); e forse tale
inestirpato legame con “l'altro da sé” della poesia contribuisce alla
disattenzione dei critici accademici nei confronti di Majorino.[6]
Quando poi - cosa insolita oggi
e non solo fra i poeti - Majorino afferma: “È che si discorre, si argomenta, si
giudica ma il divario tra chi ha e chi non ha (neppure da mangiare) non
diminuisce, non s’attenua, cresce” (22), non si può dire che il problema
cruciale su cui quella tradizione oppositiva crebbe in passato, venga
dimenticato o taciuto.
Tuttavia le parole contano: spostamento
non è più opposizione. E anche “i fatti contano” (26), specie per una
teoria come quella marxista che nella pratica collocava la sua prova di verità
e proprio lì s'è dimostrata fallimentare. Le attese di una modificazione,
“rispuntata nel '68”, sono svanite. Trovarsi, per la scelta dello spostamento,
“su terra ignota”, è atto di coraggio che ha propri costi e ben specifiche ambiguità; e Poesie e
realtà 1945 - 2001, che - va tra l'altro riconosciuto - è “un'opera nuova”
e non “una trascrizione allungata” dei due colorati volumetti del '77, questi
costi li affronta e le sue feconde ambiguità non le camuffa.
Costi e ambiguità non sono quelli che
attirano di solito l'attenzione complice di chi
legge l'antologia da vicino, diciamo pure dei lettori-scrittori
di poesia. Non riguardano tanto la scelta degli autori e dei testi
proposti. Questa ha i suoi riti, i suoi
miti e i suoi pettegolezzi; e Majorino vi si muove dentro da conoscitore
disinvolto e però in coerenza con le coordinate critiche prescelte.
Ad esempio: La bufera e altro di Montale è
riconosciuto come “un grande libro” (41), ma non si tace quanto quell'ammirabile stile è
cresciuto su una base ristretta
“inesorabilmente individualista” (41); Fortini resta “figura centrale di quel
crocicchio [Officina], e dell'opposizione in genere” (40), ma è
ridimensionato, conseguentemente a quanto Majorino afferma su opposizione e spostamento; viene dato più spazio
alla Neoavanguardia e al suo “nuovo modo di scrivere” (126), ma senza
dimenticare che il suo successo è stato tutto “endocorporativo” (42); e, se -
per gli ultimi 25 anni - abbiamo aggiunte, ridimensionamenti o esclusioni
(alcune ovvie, altre discutibili[7]), siamo nel campo fluido dei lavori in corso,
e tutto sommato non è il caso di
prendersela.
I costi e
le ambiguità che ci interessano e che
sono del resto inconfondibili coi limiti di chi se ne sta, in un conformismo
sostanziale, nell'ambito protetto del
pensiero consolidato, affiorano solo se si considera il libro collocandosi lontano,
fuori o ai margini del discorso corrente sulla poesia.
Prendiamo , ad esempio, il fatto che l’attuale
edizione appare più milanocentrica (o lombarda) dell'altra. Non
mancano buone ragioni per negare che questo carattere sia un limite: Milano è,
non solo per Majorino, “città centrale anche per la poesia, anche per la Poesia Critica”
(39, 43), è “sede e specchio del capitale privato dominante (con la Fiat,
naturalmente)” (39), vi “hanno
scritto... poeti come Rebora, Tessa, Montale, Sereni, Sergio Solmi” (40) ed è
stata punto vitale di scambio per riviste importanti (Ragionamenti, Il
Menabò, Rendiconti, Quaderni piacentini, Il corpo, Officina).
E tuttavia in questo milanocentrismo si può
vedere un sintomo delle durezze dello spostamento e degli effetti di
corrosione de “la giornata faticosa”[8] evocati da Majorino
stesso. È come se, nei decenni
intercorsi dalla vecchia Poesie e realtà 1945-1975, il suo respiro poetico e critico si fosse dovuto
non solo concentrare, ma anche contrarre, su un'area culturale saldamente
condivisa e vissuta a fondo, mentre essa
si scollegava non solo da altre aree culturali mortificate, ma soprattutto dall'altro, ben più
mortificato, della poesia stessa.
Ne risulta
- ecco l'ambiguità feconda - che lo spostamento non è gesto sovrano o
pienamente autonomo. Non è tempo il nostro di manifesti. Il nuovo
cammino non s'intravvede. E “su terra ignota” non si può certo procedere
danzando. Lo spostamento si rivela meglio anche nella sua drammaticità,
se inteso come atto guardingo, compiuto
dopo un tracollo e per resistere ad una incombente ma sempre meno
nominabile minaccia.
Nel '77 Majorino poteva inquadrarla, senza mezzi
termini, nella cornice oppositiva e alternativa dichiaratamente marxista
critica e sperare di mostrarla a
destinatari ben definiti[9] con l’intento - esplicito
e fiducioso - di combatterla, legando il fare poetico (diciamo pure il piacere della poesia o della
scrittura) alla realtà, anzi ad una realtà: quella della lotta di
classe.
Oggi i destinatari sono indeterminati (gli
“specialisti della vita che dovremmo essere tutti”) e fragili: “sballottati tra
bailamme e vuoto” fanno i conti con il ridimensionamento della “vita” a
“vitetta” (13); e quella realtà (la lotta di classe) s'è inabissata di sicuro nella coscienza comune,
mentre la nuova ignota realtà si
presenta in controfigura, in quel virtuale che sa solo simulare
“stalle di realtà” (9).
La minaccia assedia lo stesso spostamento,
che tuttavia non resta astratta predicazione, auspicio, figura
autoconsolatoria. Ha innanzitutto alcune
radici nel passato, in quella che Majorino indica come Poesia critica, nei moti
sempre carsici di riviste e autori, ecc.
E può soprattutto essere già praticato;
e lo è infatti nel linguaggio stesso di Poesie
e realtà 1945 - 2001, che non a caso sfugge al genere
saggistico della critica storico-letteraria e attinge in
profondità alla ricerca poetica condotta da Majorino negli ultimi decenni.
Un’attenta analisi lessicale anche di poche
pagine-campione del libro evidenzierebbe il lavorio di lunga lena[10] compiuto per distanziarsi
dal linguaggio massmediale (a cui spesso Majorino fa il verso), ma anche da
quello della liturgia letteraria; e persino dalle provvisorie e volenterose koinè
tentate dopo ogni trauma storico, che
pur parrebbero più vicine alle sue intenzioni.
Il
linguaggio slegato dalle gabbie disciplinari e dagli automatismi della
comunicazione coatta di Poesie e realtà 1945-2000 insegue il vissuto, i
corpi, le emozioni - in una parola il
“vivente” - ed è nel solco degli accaniti sperimentatori di fine Ottocento e
del Novecento, da Majorino studiati e amati.[11] Confrontandolo con quello dell’antologia del '77[12], sembra che egli si sia mosso più decisamente in solitudine.
Fa pensare a un nuotatore che
caparbiamente si trattiene sott'acqua e
si sposti in profondità per inseguire innanzitutto e soprattutto “impressioni
dal vivo” (16), che sono poi quelle stesse che guidano il suo fare poesia.
Il linguaggio di Majorino risulta sempre orgogliosamente lontano dai gerghi
specialistici e accademici e da quello babelico dei mass media - con le loro
frasi fatte, la chiacchiera, l'ossequio ipocrita ai Valori fissi, è ora più denso e riflessivo, ma come costretto in un bozzolo. Raggiungetemi qui,
sembra dire, e poi cominceremo a ragionare...
Non è del tutto il linguaggio comune (da
intendere in senso positivo) che andiamo nuovamente cercando, ma si può far di
più oggi?
Un linguaggio comune (o uno
somigliante, a voler dire le cose con prudenza) è venuto meno assieme ad
attività condotte in comune. Un linguaggio che volesse essere
critico-comunicativo in comune o una koinè diciamo meno
provvisoria dovrà forse costruirsi anche in comune, in luoghi
comuni, ma quelli di cui ora disponiamo sono soprattutto luoghi di falsa
cooperazione che selezionano anche falsa comunicazione.
Alcuni amici si
sono detti respinti dal linguaggio spostato di Majorino. Spero che non
si fermino a questa impressione, non si
accartoccino nei vecchi dilemmi dello scrivere chiaro, scrivere oscuro e
non sfuggano alla sua sfida. Che bisogna accettare, perché questo linguaggio critico-poetico,
spesso arduo e spiazzante, non solo nasce da un tentativo ammirevole di dar
forma adeguata all'“assillo del vivente”[13] ma registra la perdita di
comune (Majorino preferisce parlare di comunanza) che ha
investito la vita e i linguaggi di tutti
noi.
Insomma,
oggi che ci aggiriamo confusi fra stratificazioni sociali e linguistiche
terremotate, teniamocelo caro, proprio perché Majorino è rimasto più fedele
di tanti altri, e non per inerte
appartenenza al ceto dei poeti, alle premesse conoscitive della Poesia
critica. Pur sorvegliando da vicino la poesia di mestiere e non
sdegnando gli appuntamenti mondani dei circuiti di poeti e aspiranti poeti, di
essa mai s'è disamorato né l’ha castigata per eccesso di moralismo o vitalismo.
È una posizione che ha mantenuto in passato, evitando
le mode: del rifiuto della poesia
in nome della politica, quando c'erano le barricate e - pare appena ieri
- della parola innamorata; e che mantiene oggi, quando, spianate le
prime e avvizzita la seconda, impera Internet con annessi e connessi
mondializzati.
Ma prevale in lui l'esplorazione in solitudine.
È vero. Dal teorizzatore del nostro essere singoli di molti (18), corpi di
corpi (19) e dell'unica vita (19) ci si aspetterebbe un linguaggio più
immediatamente "dialogante" e forse nell'antologia si fatica a
trovarlo.
È una sua contraddizione? Forse non è una
contraddizione, ma il segno della mutata situazione storica, che ha
depotenziato il lavoro di gruppo, di cenacolo, di rivista[14] e l'ha indotto a trovare più "dentro" che "all'esterno"
le manifestazioni del “corpo dei corpi”. La sua solitudine felicemente
rumorosa[15] è scelta
etica e non chiusura solipsistica.
Tuttavia la
riduzione degli altri a fantasmi, che si fa sentire anche in Poesie e realtà
1945-2001, c'è e avviene contro le nostre volontà. E questa è un'altra
ambiguità (del libro, della realtà) da comprendere a fondo. In assenza di fili
solidamente cooperativi con gli altri - non i vicini, gli amici, i colleghi,
ecc., ma gli ignoti, i distanti, il
non-prossimo - cosa diventano gli altri?
Ombre, che
invano si sta tentando di afferrare con strumenti debolmente solidaristici,
movimentisti, ideologizzanti, politicanti, intellettualizzanti, ecc.
“È che si
discorre, si argomenta, si giudica ma il divario tra chi ha e chi non ha
(neppure da mangiare) non diminuisce, non s’attenua, cresce”. Torniamo a questo
passaggio decisivo che permette di prendere sul serio il discorso di spostamento. Qui c'è un discrimine, la soglia che dà su un
vuoto da esplorare e nominare.
Da qui è possibile misurare le intenzioni non
solo dei poeti (la "stoffa" di
cui si coprono) ma in genere di chi sa o ha strumenti di sapere (quelli che una
volta si dicevano gli intellettuali) e anche degli “specialisti della
vita che dovremmo essere tutti”. S'affaccia solo da queste parti “la
consapevolezza dell'altro che la forma poetica nasconde e vela”[16] di un altro non
metafisico, ma corporeo: “quei quattro quinti del mondo consegnati alla
miseria, esclusi dal sapere e dallo stesso principio speranza”.[17] E si coglierà forse solo
qui il senso, la direzione che dall' “ignoto del noto” ci porti all'“ignoto
vero e proprio”[18]
che - non so se tiro per la
giacca Majorino - il suo spostamento teorizza
e poetizza:
andavamo tutti come fosse un'emigrazione
chi per acqua chi per terra, allarmati
notammo che un leone ci oltrepassava
ma era come quando nella tundra
incendiata
fuggivamo insieme felini e prede uccelli
e serpi
cos'era cosa poteva esser stato nulla
ricordo
non fatti precisi non odore di bruciato
migravamo
(da Gli alleati
viaggiatori, Mondadori 2001)
Su questa soglia - se la raggiungiamo,
magari anche per via poetica, e ci sporgiamo oltre - ci porremo domande e domande.
Se davvero siamo in spostamento, di quanto ci siamo spostati o ci stiamo
spostando anche dalla Poesia (di una
volta, di oggi?) e dalla/dalle Realtà (di una volta, di oggi)? Di quanto si è spostato
Majorino stesso da queste due polarità,
cominciando prima a riscrivere il suo vecchio lavoro del '77 e poi, ad un certo punto, scompigliando del
tutto le carte predisposte e scegliendo questo
catalogo di poeti, di testi e
collocandoli in questa cornice
tripartita? Cosa dicono o possono dire da lì, su quella soglia questi
poeti italiani e i loro testi in italiano? Fanno apparire errore o pericolo le
vicende che ci stanno mescolando ad
altri (in gran parte ancora sconosciuti)? Ci aiutano a smarrirci e a mescolarci
meglio in mezzo a loro? Scatenano nostalgie delle nostre precedente visioni del
mondo mediate attraverso la Letteratura e la Poesia (la "nostra"
Letteratura, la "nostra" Poesia)?
Ora che una Realtà più grossa
(addirittura di Guerra) ci percuote e fa impallidire tutte le mediazioni precedentemente adottate
e consuete fino ad anni recenti
(l'Ideologia, la Politica, la Cultura, la Scienza, ecc.),
ridimensionandole a quasi-sogno, è più facile o più difficile
abbandonarsi con fiducia a queste
poesie?
Solo dalla suddetta soglia (artificiale quanto volete), si
controlleranno le cose (non solo l'antologia, non solo la poesia) “da un punto
di vista più magnanimo”, e anche più drammatico e forse tragico.
Ma c'è di
più. Arrivato a questa soglia, Majorino
propone di “avere a che fare” con un doppio silenzio (quello che accompagna lo
scrivere e quello “non meno essenziale, quello degli oppressi” (22). Gli
oppressi - va ricordato - non sono sempre silenziosi, neppure oggi. E la bella
proposta di “connettere o far respirare insieme i due tipi di silenzio” dovrà produrre (sta già producendo?) una
scrittura e una parola esodante, incespicante e balbettante; e pensiamo
alle figure che si sono affacciate nelle poesie più recenti di Majorino, figure
allegoriche, animali che non sbarrano più il passo a pellegrini smarriti dalla
dritta via, ma che li trascinano con sé (“nel suo trotto a zig zag cinghiale irsuto / con famiglia a fianco
bimbo su bici”) in una - si spera - doppia e ininterrotta migrazione (da noi a loro, da loro a noi...).
Perciò contro le esitazioni di amici più giovani o di
amici ancora "militanti",
bisogna prendere sul serio lo spostamento tentato da Majorino con Poesie e realtà 1945- 2000 ed
evitare, proprio perché Majorino dice cose pienamente condivisibili (37-39)
sulla Poesia Critica, il rischio di una versione rappacificante e neutrale (una
versione cetomedista lui la chiamerebbe?) dello spostamento, che
pur dal suo discorso potrebbe desumersi.
Contraddittorie, ad esempio, con
l'elogio prevalente della poesia critica paiono sia l'approvazione troppo
incondizionata dell’etica del quotidiano di Cucchi e Giovanardi (43) sia le scarse riserve sul
quotidiano in genere. Un rischio sottile di apologia del quotidiano
contro il non-quotidiano (non voglio neppure dire: la storia, i popoli,
ecc.) s'insinua in quell'etica
e, trascurandolo, si coprirebbero le ambiguità, le umiliazioni e anche la
colonizzazione del nostro vero quotidiano.
Si può anche cogliere forse una tentazione di medietà
(quasi oraziana) continuamente ribadita nello stesso né.. né delle frasi[19], nella stessa successione
di pezzi gravi e pezzi lievi del discorso (13), che ne rallentano il dinamismo.
E la concezione di fondo che Majorino riassume nelle tre formule: singoli di
molti (18), corpi di corpi (19), unica vita (19) può servire a spostarsi
dalle ripetizioni mortuarie e false, ma anche - diciamolo - a riaffermare
soltanto neutralità, sospensione delle scelte o equidistanza dall’ideologia
basata sul “singolo” e da quella basata sul “coro” che fingono il Conflitto venuto meno.
Quale spostamento, dunque?
Contro ogni illusione che “spostarsi” significhi solo spegnere la tv, evitare le
“bambinizzazioni mediali”, bisogna aver presente quanta conflittualità drammatica è richiesta
a chi - come Majorino suggerisce, in
continuità con Poesie e realtà del 1977 - cercasse ancora oggi
“autonomia”, “felicità”, “scritture dotate il più possibile di libertà”. E come dimenticare che la Poesia critica crebbe perché fu legata
all’anticapitalismo, all’opposizione, a movimenti comunque anche sociali di
enorme impatto sul mondo chiuso della Cultura (41,42)? Certo “i fatti contano”.
Anzi incombono addirittura nuovamente fatti di guerra. Ma muovo l'unica
obiezione di fondo al discorso di Majorino: la critica non trascina
necessariamente con sé un qualche grado di opposizione? Lo spostamento non contiene implicitamente in sé un'opposizione
(una qualche opposizione) a ciò
da cui ci si sposta?
Un ultimo ragionamento: sui poeti
moltitudine o gli scriventi di
massa.
Il cenno al centinaio di poeti
che in attesa di “consacrazione” (48) dovranno essere antologizzati tradisce,
visto da vicino, una presa di posizione paternalistica e
liberale, confermata anche dalla
ribadita e indiscussa centralità dell’autore (24). Pare una scivolata
trascurabile specie in questi tempi dove contano solo i Personaggi, le Èlites. Da
lontano, invece, il problema appare più importante.
All'ombra di poche fortezze corporative che
amministrano la
Qualità Poetica, sono accampati miriadi di scriventi
che poetano con gli scarti delle prime[20].
È un brutto segno, omologo a
tanti altri che riguardano la Proprietà, il Potere, le Risorse, ecc.
Si capisce lo sconcerto di un
critico come Luperini quando vede che “oggi si scrivono spesso poesie così come
si cammina sui prati, o come si fa un qualunque lavoro specializzato”[21], o di un poeta-critico come Majorino quando è
costretto a calpestare “un fondo culturale degradato” (216), giustamente
infastidito da chi va a caccia “di
poterino, di microrinomanza” (220-21).
Ma perché non si dovrebbe
capire anche lo sconcerto di chi non ha
fatto in tempo ad infilarsi attraverso i ponti levatoi quando erano aperti o li
vede arrogantemente sorvegliati oggi da certi cerberi editoriali?
Questa “proliferazione
poetica... non s'attenuerà” (226), anche perché la verticalizzazione
corporativa non s'è mai attenuata negli ultimi decenni.
La si può snobbare,
disciplinarla dall'esterno o dall'alto? Ed è sopportabile la canonizzazione
corporativa dei Poeti Magni fatta dai loro cortigiani?
È tutto il fenomeno della scrittura
di massa che, assieme ad un nuovo
ripensamento della Poesia e della Letteratura di Qualità, andrebbe fatto
coraggiosamente riemergere e non guardato dal buco della serratura di una
disciplina universitaria. Non basta
lucidare alcuni nuovi criteri di critica
dei testi. Non basta l'allargamento della corporazione poetica o una maggiore
inclusione di meritevoli, neppure in antologie spostate fuori
dalla corporazione, come pare prospettare Majorino.
Cosa vuol dire, piuttosto, per
questi poeti-massa spostarsi?
La comprensione di come la moltitudine
poetante possa organizzare un suo
vero spostamento (non una cooptazione-incursione nelle fortezze della
Qualità Poetica) è inseparabile dal problema
di come altre moltitudini di migranti,
di esclusi, di profughi e perseguitati possano spostarsi, sfuggendo alle
nuove fortificazioni del potere imperiale e delle società, "chiuse" e
a stretto controllo, a cui siamo avviati.
Il problema Majorino l'ha posto, apparentemente ai margini del suo discorso generale. È
proprio quello: “l'enorme rimanente giace nella penombra”; “e le ombre qui che
fanno? Parlano le ombre? Pensano le ombre? Scrivono le ombre? La massa matassa
dei muti e dei semimuti, dei senza cibo, degli accoltellatori per forza, quattro
quinti del mondo, cosa fanno?” (364).
Le ombre: quelle della
moltitudine poetante, quelle dei semimuti
etc.
C'è qualcuno che saprà
interrogarle e non scegliere solo le "migliori" o le più
"presentabili" in Tv, all'università, nelle case editrici, nelle
istituzioni cosiddette civili ma "nostre"?
Ennio Abate
2 ottobre 2001
[1]
“una grandinata di concetticona tolti dalle centocinquanta pagine di righe
formiche”
[2]
“Tu, invisibile lettore che certamente scrivi, confido saprai discernere,
scartando; e, discutendo di Poesie e realtà”
[3]
“la massa matassa dei muti e dei semimuti, dei senza cibo, degli accoltellatori
per forza, quattro quinti del mondo cosa fanno?”
[4]
Com'è, invece, l'antologia Garzanti, Il pensiero dominante, di Franco Loi e Davide Rondoni.
[5] Dall'intervista a
Raffaeli, Una solitudine felicemente rumorosa, in il manifesto 17
luglio 1999.
[6]Tranne un'attenta
segnalazione di Antonio Prete su L'immaginazione 178, giugno 2001, non
ci sono stati echi rilevanti alla pubblicazione del libro in questione,
riconfermando così anche a distanza di tempo un'amara osservazione fatta da
Franco Fortini: “Giancarlo Majorino è uno di quegli autori che sono stati
mantenuti in ombra perché non ha receduto da certe posizioni politiche e
morali” (in F. Fortini, Trentasei moderni. Breve secondo Novecento,
Manni 1996)
[7] Cfr. ad es. Massimo
Raffaeli, Fuori collana poeti italiani, in Alias N. 11 17 marzo
2001. Anche se l'autore dell'antologia ha spiegato chi sono per lui quelli da
escludere:“i subordinati all'ideologia dell'arte per l'arte (di stampo
neoromantico, esaltante la purezza, il sapere altro, la voce assoluta: oppure
di valorizzazione in esclusiva del significante a spese del significato);... i
subordinati all'ideologia dell'arte rappresentativa (impegnata, mimetica,
rispecchiante; polemica; diaristica) (47), certi "buchi" restano.
[8]
È il titolo del primo passaggio dell'Apertura.
[9] “Si può tranquillamente
definire proletario il destinatario” scriveva nel '77
Majorino nell'introduzione, mentre oggi
si rivolge agli “specialisti della vita”.
[10] Come esempi minimi e
casuali di tale lavorio, vedi: tonalizzazione (11), concetticona (11), esternet
(14), snotizie (17), ecc. Oppure certi ripetuti slittamenti di significato
all'inseguimento dell'inconscio: attraenti, a sé traenti (21), la vita è
vitetta (13). Oppure certi ripetuti slittamenti di significato all'inseguimento
dell'inconscio: attraenti, a sé traenti (21), la vita è vitetta (13).
[11] “da Baudelaire a Rimbaud
e a Mallarmé, da Kafka a Musil, da Proust a Joyce, da Mandel'štam a Eliot a
Brecht, da Céline a Beckett” (33) . Oppure certi ripetuti slittamenti di
significato all'inseguimento dell'inconscio: attraenti, a sé traenti (21), la
vita è vitetta (13).
[12] che ebbe qualche
rimbrotto da F. Fortini, il quale in una recensione del 24 dicembre 1977 su il manifesto
riscontrava un sovrappiù di “atletismo verbale, di grinta, di virilismo”.
[13]
Antonio Prete su L'immaginazione 178, giugno 2001
[14]
intenso negli anni Sessanta e che Majorino
registra, ad esempio, a pag. 38.
[15]
Sempre Raffaeli, il
manifesto 17 lugglio 1999
[16]
Prete sempre su L'immaginazione 178, giugno 2001
[17]
Prete sempre su L'immaginazione 178, giugno 2001
[18]
Sempre nell'intervista a Raffaeli, il manifesto 17 luglio 1999
[19]
es. “non ritenendo meraviglie vere né il tappeto volante né la cura della
partita doppia” (12); “quotidianità a mezz’aria rispetto al suolo e al
sottosuolo di chi lotta per non precipitare, privo di parola o quasi” (12).
[20] che Majorino così
"ammucchia":“Rirealisti, Diaristi, Neoromantici, prosecutori di
Avanguardie, Visionari, Sperimentalisti per varie traiettorie, Viscerali,
Ipertestuali, Miscelanti psicanalisi o altre scuole di pensiero e poesia”
(227).
[21] L'osservazione è tratta
da un'intervista a Luperini di Massimo Raffaeli (il manifesto 31
marzo 2001) a proposito di un recente convegno senese, Genealogie della
poesia nel secondo '900, a cura di R. Luperini e M.A. Grignani, Pontignano 23-25 marzo
2001. In esso, oltre all'elenco dei sintomi esterni, immediati e ormai ben
noti, dello stato di crisi della poesia italiana nel secondo Novecento, e al
riconoscimento di una certa vivacità della ricerca poetica in corso, il
problema della moltitudine poetante è affrontato col "bastone"
del canone.
La contrapposizione fra
canone immobile alla Bloom, fissato all'Iperuranio degli “spiriti magni” e rifiuto "nichilistico" di ogni
canone, è però una di quelle
contrapposizioni "sinistra/destra", che tengono il discorso in un
ambito scolastico, ermeneutico, habermasiano,
da democrazia "sfondata" e non vogliono misurarsi a fondo con
il fenomeno moltitudine, fosse pure soltanto quella sua sezione che
pressa più da vicino le corporazioni letterarie ed editoriali: la moltitudine
poetante o scrivente appunto.
Ripercorrendo, per suo conto e
lateralmente rispetto alla critica letteraria universitaria, lo stesso arco
storico, Majorino arriva anch'egli, nella riflessione sull'epoca del gremito,
a questo scoglio della “novità più che ventennale di una crescita
impressionante di scriventi versi” (226), ma lo pensa, purtroppo, solo in
termini di "aggiungiamo qualche altro posto a tavola".
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