Note e riflessioni sulle scritture di amici e amiche

Alla ricerca di un senso nel mondo instabile e molteplice che poco conosciamo

Ai visitatori. Su questo blog (abbozzato nel 2010) pubblicherò le mie note di lettura sui testi editi o inediti. Nel caso di testi editi ritengo di poter esercitare liberamente il comune diritto alla critica. Per gli inediti, se necessario, chiederò prima l'autorizzazione ai diretti interessati. [E.A.]

15 luglio 2011

martedì 23 agosto 2011

Su Romano Luperini*
L'incontro e il caso (Laterza 2007)

 *Romano Luperini insegna Letteratura italiana alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Siena. Ha pubblicato, tra l'altro, La scrittura e l'interpretazione. Storia della letteratura italiana nel quadro della civiltà e delle letterature dell'Occidente (in collaborazione con Pietro Cataldi, Palermo 1999), Breviario di critica (Napoli 2002) e L'autocoscienza del moderno (Napoli 2006). Dirige le riviste di critica e teoria della letteratura "Allegoria" e "Moderna". E' autore di monografie su Montale, Tozzi, Verga e Pirandello. Ha pubblicato due romanzi: I salici sono piante acquatiche (2002) e L'età estrema (2008)

Giugno 2007 
(Con piccole revisioni dell'agosto 2011. 
La versione precedente si legge sul sito di Romano Luperini qui)


 

Sotto il dominio del caso. Questo il destino dell’uomo occidentale?

di Ennio Abate

 

Il tema dell’incontro con l’altro, quasi sempre tra un uomo e una donna e spesso del tutto immaginario, è al centro di questo libro. Luperini vi studia la funzione narrativa che esso svolge in undici opere, che sono dei veri monumenti del grande romanzo borghese sviluppatosi nei «paesi industrializzati dell’Europa dell’Ovest» (p. 10) e nel periodo che va dal primo Ottocento al 1922 circa, da Luperini definito «della piena modernità e della svolta modernista» (p. 8). In ordine di trattazione troviamo capitoli riguardanti Manzoni, Flaubert, Maupassant, Svevo, Proust, Musil, Verga, Joyce, Pirandello, Tozzi e Kafka.  Solo rapidi cenni sono dedicati (per ora) al resto del Novecento. Perciò il baricentro del saggio è, di fatto, nella storia europea che precede l’avvento dei fascismi.

La tesi di Luperini è la seguente: in questi scrittori vediamo limpidamente il passaggio dalla narrazione alla descrizione (una formula che fu di Lukács); vediamo, cioè, che all’inizio del periodo esaminato  gli scrittori presentano l’incontro come un fatto reale capace di determinare cambiamenti di sostanza; cosa possibile, perché l’incontro (il particolare) è dagli scrittori inserito senza difficoltà «in un progetto o in una parabola» che ha carattere universale; ma col tempo sempre più l’incontro viene raffigurato come un momento inessenziale ed è la prova che i personaggi dei romanzi conducono ora «una esistenza ridotta a sperpero di atti minuti e casuali» (p. 8) quasi smaterializzata o in via di evaporazione. Del primo tipo, ad esempio, sono gli incontri tra Lucia e l’Innominato nei Promessi sposi di Manzoni o, ben prima, di  Isacco e Rebecca nel libro biblico della Genesi (p. 12) o quelli di Dante (personaggio) con Paolo e Francesca, con Farinata, con Ulisse nella Commedia. Sono tutti incontri «di necessità assoluta» (p. 13). Non lo è più, invece, l’incontro in riva al mare di Leopold Bloom con Gerty MacDowell nell’Ulisse di Joyce, specie se lo confrontiamo con quello faccia a faccia fra Ulisse e Nausicaa (p. 11) nell’ Odissea. Conclusione: si passa «dall’esperienza dell’incontro all’incontro come fine dell’esperienza» (p. 9); ed è la prova di «un distacco dalla realtà che porta con sé una impotenza alla significazione» (p. 22). Il fenomeno è generale: ne abbiamo degli esempi nel romanzo, nella novella e nella stessa lirica. Anzi À une passante di Baudelaire, che introduce in senso moderno il tema dell’incontro inquietante con una donna seduttiva, diventa un archetipo, che gli stessi romanzieri o scrittori di novelle riprenderanno con insistenza  a cavallo tra Otto e Novecento (p. 25).

Il tema dell’incontro segue, dunque, una parabola discendente; e segnala per Luperini che la «fiducia nella libertà e nella responsabilità dell’uomo, nella sua capacità di confrontarsi con l’altro» si va perdendo. Il romanzo testimonia perciò la nascita di  una «nuova antropologia». Ci parla di un uomo «sempre più dipendente da pulsioni inconsce e dal potere del caso» (p. 11); e, perciò, incapace «di incontrarsi, di dialogare, di trasformare l’interlocutore e di poter conoscere e dominare il mondo» (p. 33). Questo tipo di uomo è per Luperini l’esito finale di una storia, svela - egli dice - il «destino dell’uomo occidentale».

 

Il saggio offre, dunque, un quadro sostanzialmente negativo e tragico della storia (europea). E anche se Luperini ribadisce il suo rifiuto delle filosofie deterministiche e nichiliste e vede il processo che ha descritto come «una spirale che può ritornare su se stessa» e non un moto «unidirezionale e rettilineo» (p. 33), il vero emblema che domina il libro è la figura kafkiana dello «spettatore impotente» considerata «ancora tragicamente attuale» (p. 34)

L’incontro e il caso è un esempio - una rarità oggi - di  ottima critica letteraria. Svolge, infatti, in modo chiaro un discorso complesso, compatto e d’ampio respiro; ed è rigoroso nelle argomentazioni, profondo e fine nell’applicare all’analisi dei testi una serie di strumenti storici, antropologici e psicanalitici. Ora, proprio per salvaguardare i grandi meriti di questo libro, credo che si debba - certo con una forzatura -  metterne in discussione il suo cuore, e cioè la visione tragica, particolarmente affascinante e tentatrice in questo inizio di nuovo secolo, che continua a smantellare, nella cronaca e nella storia, ogni possibile idea “positiva”. Non ho nessuna pretesa di contrapporre alla visione tragica un qualsiasi richiamo - che so - alla Ragione, al Progresso, al Socialismo o al Comunismo. Sarebbe risibile, perché siamo tutti ostaggi (a volte persino compiaciuti) dei fallimenti storici del Novecento. Vorrei, però, affiancare al discorso critico di Luperini, che appare a prima vista quasi irrefutabile, delle obiezioni, che partono da una semplice scommessa di segno leggermente antitragica:

 

1. Non credo che si possa parlare di «destino» né di «uomo occidentale» senza alcune necessarie precisazioni. La storia è andata com’è andata. Le speranze migliori sono state deluse. Ma il fallimento è imputabile soltanto agli uomini. Non era - come si pensa, ma non si dice - “scritto nel destino”. E il concetto di «uomo occidentale» è generico, inaffidabile, ammucchia vite che dovrebbero essere distinte: tra gli uomini occidentali (al plurale) ci sono stati, e ci sono ancora oggi, gli spettatori impotenti (e spesso “vittime” anche consenzienti), i potenti quasi sempre aggressori e fomentatori di aggressioni e i resistenti più o meno attivi. Sarebbe bene, perciò, non mescolarne le loro varie vicende in un’unica storia “occidentale”, che risulterebbe inevitabilmente quella sognata, preparata e imposta dai “vincitori”. Sarebbe bene, invece, proteggere le "piccole" verità costruite da quelli che alla fine sono risultati i “vinti”. Chiederei, in fin dei conti, soltanto un supplemento d’indagine sulla storia ferocemente conflittuale  della modernità, che è stata piena di ambivalenze, mentre nel saggio di Luperini tutto appare svolgersi in modo unitario, come opera di un soggetto unico (l’«uomo occidentale») ed essa è data per definitivamente conclusa. (Il termine «destino» è davvero ultimativo e inequivocabile, perché insiste su una pre-determinazione, su una immutabilità di un processo e sulla sua indipendenza dalla volontà umana). E cercherei altre tracce, magari piccolo borghesi o proletarie, rimaste nei documenti ma anche in monumenti non canonici o esclusi dal grande canone europeo.

Ci sono stati, infatti, eventi e movimenti nella storia europea che, episodici quanto si vuole, sono andati in controtendenza rispetto ai fenomeni che inducono Luperini a parlare di «nuova antropologia» e di trionfo della «cultura della vita privata». Della rivoluzione borghese del 1848 qualcosa di fecondo rimase. Magari, se non per noi europei, per i popoli dagli europei poi colonizzati, che ai valori della rivoluzione borghese

a loro modo si richiamarono  per emanciparsi. Certo, dopo quel 1922, che è il termine del periodo esaminato da Luperini, abbiamo avuto i fascismi. Ma ci sono state anche le Resistenze e le lotte anticoloniali. E queste, anch’esse presto o tardi sconfitte o aggirate come la rivoluzione borghese del 1948 o le successive rivoluzioni socialiste, animano però ancora oggi lotte difficili da decifrare, ma solo in apparenza incomprensibili o estranee all’Europa.

 

2. Non sono convinto che il modernismo costituisca davvero «uno spartiacque […] assai più decisivo e radicale di quello segnato dal cosiddetto postmoderno nella seconda metà del Novecento» (p. 319). Il postmoderno ha molte facce. Non è riducibile solo a quella ilare, ottimistica e cinica. In altri termini, non credo che si possa affermare che «il destino dell’uomo occidentale, quale era stato avviato un secolo prima dalla rivoluzione industriale, si [sia] deciso in quegli anni» (p. 319). Forse si sta decidendo ancora oggi.

 

3. Fondamentale mi pare la domanda, che - suppongo - molti lettori de L’incontro e il caso si sono fatti e che Luperini stesso riprende nelle conclusioni del libro: «E dopo?» (cioè dopo il 1922). Se essa, però, non fosse un punto di partenza per nuovi interrogativi, il suo saggio resterebbe un riepilogo – serio, senza sbavature o concessioni – della cultura borghese europea e una sorta di nobile testamento della sua tragica fine. Paradossalmente e contro le false evidenze costruite dal revisionismo storico, mi arrischio a dire che il senso tragico di questo libro potrebbe essere corretto con la continuazione della ricerca su quel resto del Novecento per ora non trattato e che, a prima vista, si presenta come una notte (troppo) buia dopo il languido, ottocentesco, tramonto borghese.

 

4. Metterei anche in discussione la scelta della tipologia di incontro con l’altro qui studiata. Gli incontri o i mancati incontri trattati dai grandi romanzieri borghesi avvengono, in effetti, tutti nella sfera privata. Nessun dubbio che essi, pur lasciandola sullo sfondo, parlano - metaforicamente o per metonimia - anche della condizione storica del loro tempo e di una condizione umana in generale; o che, essendo le loro opere degli indiscussi monumenti e non meri documenti, il critico della letteratura debba privilegiarle e studiarle con apposita strumentazione. 

Resta però un fatto: l’orrore storico, quello vissuto dai molti, non è proprio la stessa cosa dell’orrore, che i romanzieri borghesi hanno letto individualisticamente e presentato in modi obliqui e allusivi. Non posso dimenticare la forza di due versi di Brecht, che ripetutamente mi viene voglia di citare: Anders als die Kämpfe der Höne sine die Kämpfe der Tiefe! (Diverse dalle lotte sulle cime sono le lotte sul fondo[1]).

Il monumento (il grande romanzo), per quanto esteticamente eccezionale, non sostituisce (e non esaurisce) le verità che possono trovarsi nella realtà (e, in parte, nei documenti che ci restano). Spesso poi nei documenti ci può essere un certo tipo di altro, che nei monumenti non è rientrato o non può rientrare. Anzi, talvolta, lo stesso splendore delle grandi opere può agevolare la messa tra parentesi dell’«orrore storico», delle “piccole resistenze” ad esso e persino distrarre dalla sua non semplice indagine e comprensione.

Né vanno dimenticate le rimozioni operate dagli stessi grandi scrittori. C’è sempre da sospettare (una volta lo si faceva!) della connivenza e complementarità tra «cultura della vita privata»  e cultura della vita pubblica. La loro attenzione alla vita privata, soverchiante e unilaterale, è anche accettazione, sopportazione (di fatto) dell’«orrore» su cui si regge  quella pubblica borghese. Un critico non può trascurarlo. Ed allora - mi dico, sapendo di scandalizzare qualcuno - è assurdo ipotizzare che, quando gli scrittori prendendo le distanze dalla vita pubblica (o ne vengono emarginati), si riduce anche il valore estetico delle loro opere e non solo quello documentario, a cui l’arte – si sa - non è strettamente obbligata?

 

5. Questa mia ipotesi ha un senso. A meno di non sostenere che la grandezza estetica delle opere debba chiudere la bocca a noi tutti. Oppure, che la loro grandezza nasca proprio dall’accettazione dell’orizzonte privato come destino. Oppure che l’insistenza di altri scrittori - lo stesso Luperini offre gli esempi di Levi e Fenoglio, ma per il Novecento numerose potrebbero essere le aggiunte - nel confrontarsi direttamente con la storia e a trattare l’incontro con i molti, invece che l’incontro con la donna, - e, perciò, ad intendere l’altro in tutta la sua complessità sociale e storica - si svilupperebbe solo in straordinari periodi storici (la Seconda guerra mondiale, la Resistenza) e abbia avuto una resa estetica meno “monumentale” e, tutto sommato, secondaria.

 

6. Mi si potrebbe accusare di fondare il mio ragionamento antitragico più su una preoccupazione per l’orrore storico che per la bellezza artistica. Ma in realtà - ripeto - chiedo solo di guardare meglio

nell’ oscura realtà di quello che, per convenzione, diciamo «orrore storico» , senza trovare alibi né nei monumenti né nei documenti.

 

7. Non ho competenze per dire che, esaminando il tema dell’incontro su altri testi dello stesso periodo studiato da Luperini o sui testi del periodo successivo al 1922 (che so, dei futuristi, dei surrealisti, delle avanguardie, del neorealismo), la lettura del «destino» dell’uomo occidentale da lui proposta possa vacillare.  Credo, però, che in tutto il lungo Novecento, sia possibile interrogare vari scrittori che hanno rifiutato la rigida divisione tra privato e pubblico e hanno fatto emergere una possibile dimensione comune, dove privato e pubblico non siano separati o del tutto contrapposti, ma appaiano quantomeno contigui e più fluidamente intrecciati che nel grande romanzo borghese.

 

8. Un’ultima obiezione riguarda il residuo di marxismo ancora operante in questo libro. Credo che per L’incontro e il caso si debba parlare di un crescente peso nella ricerca di Luperini della componente psicanalitica e antropologica (Cfr. i riferimenti a C. Taylor, a Freud, ad Orlando) rispetto alla lezione marxiana, più in primo piano nella sua precedente produzione e che qui pare circoscritta ad alcuni autori (Adorno, Lukács, Benjamin), con un evidente ridimensionamento degli apporti marxiani più sociologici e una (sorprendente per me) assenza (di fatto) di Fortini, pur suo maestro riconosciuto.  Le citazioni dell’ultimo Lukács («L’unica ontologia accettabile […] è quella dell’essere sociale», p. 34) o di Adorno («esiste civiltà solo dove si può essere diversi senza paura», p. 35) e la rielaborazione che Luperini è andato svolgendo, sulla scorta di Benjamin, negli ultimi decenni del «discorso allegorico», gli permettono ancora  di parlare del letterario «per parlare di altro» (p. 36). Ma questo altro, a cui allegoricamente si accenna, sta sul «vuoto». E sul vuoto non si costruisce. Da qui il senso di una mancanza, che potrebbe far scivolare la sua nobile e seria visione tragica verso il “tragicismo”. Dall’allegoria vuota dobbiamo uscire. Questa è la vera scommessa per tutti.

 

 



 



[1] Dal frammento La bottega del fornaio


1 commento:

  1. mi trovo perfettamente d'accordo che sul vuoto dell'allegoria non si costruisce niente: e poi, quale vuoto? c'è vuoto e vuoto... c'è il vuoto del minimalismo e c'è il vuoto di autori come Edoardo Cacciatore... vogliamo parlare d'altro? sì, molto comodo: ma quale "altro"? è qui che cade l'asino. ma mi sembra che Luperini non sappia indicare esempi concreti di questo misterioso "altro" (che vuol dire tutto e il contrario di tutto)... insomma, ritengo che si debba uscire fuori dalle formule d'uso e dai truismi.

    giorgio linguaglossa

    RispondiElimina