Note e riflessioni sulle scritture di amici e amiche

Alla ricerca di un senso nel mondo instabile e molteplice che poco conosciamo

Ai visitatori. Su questo blog (abbozzato nel 2010) pubblicherò le mie note di lettura sui testi editi o inediti. Nel caso di testi editi ritengo di poter esercitare liberamente il comune diritto alla critica. Per gli inediti, se necessario, chiederò prima l'autorizzazione ai diretti interessati. [E.A.]

15 luglio 2011

venerdì 15 luglio 2011

Su Franco Arminio*
Circo dell'ipocondria
Le Lettere, Firenze 2006

*Franco Arminio (Bisaccia, Avellino, 1960) è poeta, scrittore e documentarista della vita odierna dei paesi dell’Irpinia orientale. Tra le sue numerose pubblicazioni:  Cimelio dei profili (1985), Atleti (1987), Viaggio nel cratere (2003), Circo dell'Ipocondria (2006), Vento forte tra Lacedonia e Candela. Esercizi di paesologia (2008), Cartoline dai morti (2010) e Oratorio bizantino (2011)



Cologno Monzese 4 gennaio 2007

Caro Franco,
mando a te (e per conoscenza a D) la bozza di un eventuale articolo su Circo dell’ipocondria da pubblicare in uno dei prossimi numeri di Poliscritture*, ma solo dopo che avrò raccolto osservazioni da parte tua e sua e ulteriori miei ripensamenti.
Dalla bozza ripulirò senz’altro i sovrabbondanti riferimenti alle pagine del libro, che per ora paiono utili per controllare facilmente i passi a cui ho fatto riferimento.
Come vedrai, confermo il mio atteggiamento critico. Ma la distanza non deve nascondere la stima per la ricerca estetica che trovo predominante nel tuo lavoro e il desiderio di superare eventuali miei pregiudizi. Una tua replica pubblica potrebbe, se accetti, affiancare il mio scritto.
Ti saluto sperando che il dialogo tra noi possa comunque cominciare
Ennio
*La pubblicazione sulla rivista è poi saltata.

Letture d’autore

Sul CIRCO DELL’IPOCONDRIA
In forma di lettera all’autore

Circo dell’ipocondria di Franco Arminio (Bisaccia di Avellino 1960) è stato pubblicato da «Le Lettere» di Firenze nel settembre 2006. Il libro di 115 pagine contiene 9 capitoli e due appendici in prosa ed è accompagnato da una veloce introduzione di Andrea Cortellessa, tre note finali di Valerio Magrelli e dalle immagini del dvd La terra dei paesi, riprese dall’autore girando «in lungo e largo per tutti i centoventi comuni della provincia irpina, nella parte più interna della Campania» tra 2004 e 2006. I temi trattati sono disparati: vita quotidiana, autori di riferimento, vita, Dio, rapporti umani, donne, malattia, posta elettronica, paura, religione, paesaggio; ma ricorrenti sono soprattutto quattro: corpo, ipocondria, morte e scrittura. I titoli dei nove capitoli non indicano uno svolgimento né rimandano a un argomento in essi dominante. Ciascuno ha in exergo versi dell’autore, il quale ha pubblicato finora quattro raccolte poetiche. Il primo, Intervista a un morto di nome Arminio, introduce il personaggio-autore di nome Arminio, di cui nei successivi si parlerà in terza persona. È lui che dà unità a un flusso ininterrotto di pensieri suddivisi in paragrafi di diversa misura: da un minimo di 2-3 righe a un massimo di circa cinquanta.

Caro Franco,

Circo dell’ipocondria è per me un diario “mascherato” e senza date che presenta la crisi di un quarantenne di nome Arminio[1]. Egli è in contrapposizione con tutti («Si litigava con tutti, coi nemici, ma specialmente con gli amici»,9) e tutto trova «insopportabile» (10). In preda all’ipocondria e alla paura di possibili malattie o della morte, «sempre fuori, fuori dalla vita» (11), insegue le donne che lo deludono «più o meno come gli uomini» (11) e non riesce a godere di niente («non godendomi niente non mi godevo neppure i figli» (12). Spia «se stesso, il proprio corpo, la propria vita» (13) e scrive per «andare avanti» (10). Ha lasciato perdere la politica («con la depressione la politica andò via dalla testa, insieme alle donne e ai giornali» (13) e pensa «a Dio, alla morte, alla poesia» (13). Dalla scrittura, diventata per lui una «trappola», si sottrae un po’ usando la videocamera e diventando «paesologo».

Il tema di Circo dell’ipocondria è quello della crisi dell’io che domina tutto il Novecento. Anche tu lo affronti con una enfiagione parossistica - una sorta di gigantografia sia pur a volte autoironica - che opacizza gli altri, una folla di contorno quasi sempre anonima (nel libro gli altri non sono mai individualizzati) e rimuove parti consistenti della “realtà”, del “mondo”.
Questo modello d’introspezione della grande cultura borghese del Novecento, ripreso oggi dopo l’abbandono dei tentativi di “fuoriuscita dall’io” (neorealismo, neoavanguardie, arte impegnata) da tanti scrittori, ha i suoi meriti. A te serve per fare piazza pulita delle ipocrisie e delle false modestie di tanti piccoli io falsificati e conformisti (i bersagli mi paiono soprattutto gli stili di vita di certi ambienti intellettuali e letterari) e a dire su te stesso cose anche scomode, abbastanza veritiere e spesso contraddittorie. Viene fuori un personaggio-maschera brutale e fragile, superbo e bisognoso di amore e riconoscimenti («Arminio si sente umile e feroce. Si sente egoista e generoso», 32). Ma il modello ha i suoi limiti: anche tu, staccando di netto la tua individualità sofferente (la «coscienza infelice» del borghese), ammutolisci gli altri (e soprattutto le altre, le «donne»). In Arminio non si sentono echi delle voci altrui, né domande, bisogni o problemi riferibili a un altro punto di vista. Non interloquendo con gli altri («La questione centrale è che Arminio è ultimativo. Non ama nessuna forma di interlocutorietà», 78-79), tralasci quasi ogni forma di dubbio su quanto affermi, e solleciti tu stesso, in un certo senso, alcune reazioni obbligate: ammirazione o repulsione.

Anche le scelte tecnico-formali (aforismi, prose brevi, paradossi, «pensare per immagini»), pur dando risultati brillanti sul piano letterario, secondo me ingabbiano un pensiero già introverso e a volte scostante, che non motiva mai il perché delle sue affermazioni, non argomenta, non approfondisce («Arminio è un trapezista che deve fare la fila al supermercato. Tenetemi le buste, fatemi volare. È questo che dice ogni giorno. Per questo non è amato. Chiede di essere accudito per poter accudire qualcosa di più grande», 58). E privilegiando il frammento, lavori soprattutto su variazioni (a volte ossessive) dei temi trattati, senza giungere a veri svolgimenti. L’enfasi narcistica si somma al sospetto verso gli altri («si vuole intrufolare nella tua vita»,54), dai quali pur invochi a ogni pie’ sospinto affetto e attenzione e ti nasconde la possibilità anche solo di ipotizzare un diverso rapporto con gli altri e le altre: dialogante, ma soprattutto paritario e fondato su una difficilissima reciprocità. E per ciò, credo, nel libro non s’intravede una uscita dalla crisi (come dirò meglio più in avanti).

Non voglio fare il moralista. Nessuno è privo di narcisismo (e perché poi dovrebbe esserlo?). In una certa misura il narcisismo è “produttivo” e lo dimostra non solo la tua scrittura. Ma qui colpisce la spettacolarità da «circo» delle performance narcisistiche dell’io, talmente accentuate da spingere Arminio a parlare di sé in terza persona (anche se in parte potrei leggervi un tentativo di maggiore “impersonalità”…).
Il rapporto io-altri è teatrale e spettacolare: l’attore sul palco e il pubblico in platea, il clown al centro e la folla nell’ombra. E allora mi chiedo: può mai Arminio capire «cosa è successo nella testa degli altri» (85) pensando così tanto a quello che succede nella propria, soprattutto quando la sua è sentita (o si è) così separata e contrapposta a quella degli altri? se privilegia, cioè, l’esibizione e dimentica l’ascolto?
Ho già detto che gli altri in generale (uomini o donne) sono sfondo anonimo e generico. Altrettanto generici sono gli «amici», di cui Arminio non fa che lamentarsi. Altre volte lo sono gli intellettuali («nessuno ha mai tempo», 63). Altre ancora i poeti (71)[2].
Agli altri richiede più attenzione al suo lavoro (47), ma l’auspicato incontro con loro non è pensato come cooperazione su un piano di umana razionalità attorno ad un progetto comune. Romanticamente lo immagina come incontro eccezionale e totalizzante, incontro di anime o di folli geniali, implicitamente concesso in esclusiva a pochi («Gli interessa chi sa incontrare il suo delirio interamente e chi sa interamente offrirgli il proprio», 47).
E le donne? Poste sullo stesso piano della letteratura - una cosa astrattissima - e perciò elevate in apparenza a «possibili strumenti di conoscenza» (11) (di cosa non lo dice, ma si può supporre, in base a una secolare tradizione, che siano tramite solo verso l’Altro), attestata una loro specifica e ambigua funzione («Sembra che le donne stiano veramente lì per amare o per godere», 81), la distanza da loro appare incolmabile a «una creatura tragica come il poeta» (81). Consistenti in sé, ma non interessanti in sé, mai viste come possibili cooperatrici alla pari con gli uomini nelle cose da costruire assieme, restano aliene. È solo in loro assenza che i poeti “costruiscono” («I poeti sono gli unici veri amanti delle donne in quanto per loro le donne non esistono e se esistono sono solo muse, dee, pretesti per adire le vie della scrittura» (81).

Questa scrittura psicanalizzante/psicologizzante si fonda su una saldatura di ipocondria e letteratura. Non tenendo presenti o svalutando o non interessando altri usi (sociali, politici, comunicativi) della scrittura, essa viene praticata in termini individualistici: Arminio oscilla tra usare la scrittura come possibile autoterapia («La scrittura è stato un continuo autostop che l’ha portato avanti di anno in anno», 47) e suo rifiuto come «trappola» (29).

Non nego né ironizzo sulla sofferenza dell’ipocondriaco. Ma prima ancora di capire come essa si trasformi entrando in letteratura, diventando cioè immaginario letterario e facendosi strumento per scrivere come tu pure indichi («La sofferenza ipocondriaca è una sofferenza che produce scrittura sempre e comunque, anche quando l’ipocondriaco non è uno scrittore. Ascoltate quello che dice un ipocondriaco e sentirete sempre che sta facendo letteratura. Magari sarà di pessima qualità, ma sempre di letteratura si tratta,37) o tornare a imporsi come «bulimia grafica» (28) e prima ancora di decidere se si tratti di letteratura di alta o bassa qualità, per me conta un’altra cosa: capire se quella saldatura sia stata (e sia) inevitabile, se davvero Arminio ha fatto tutti i tentativi per uscire dalla “malattia” (cercando magari altri “alleati”, magari uno psicanalista come fece, che so, Umberto Saba o tanti altri dopo di lui). Non è secondario capire perché, sotto l’assillo della “malattia”, uno si leghi proprio alla letteratura e alla scrittura.
Non credo, infatti, che l’ipocondria sia in tutti i casi «una sofferenza che produce scrittura sempre e comunque, anche quando l’ipocondriaco non è uno scrittore»; come non credo, sulla scia di Adorno, che follia e arte siano sorelle gemelle. Non mi convince, dunque, la riduzione che Arminio fa della letteratura a, diciamo, letteratura ipocondriaca o, in altri termini, l’alleanza complice tra ipocondria e scrittura per lui quasi obbligatoria.
E invece, in un passo del libro che giudico illuminante, meno teatrale di altri e quasi sincero, mi pare di cogliere l’atto pratico fondativo (e non scavato nelle sue implicazioni) di quella saldatura tra “malattia” e scrittura. Quando, infatti, l’intervistatore-“psicanalista” chiede: «E allora perché è rimasto sempre nel suo paese?», il «morto di nome Arminio» risponde: «Perché non ho creduto abbastanza in quello che c’era altrove e non ho avuto la forza di muovermi» (14). Istruttivo è anche che egli razionalizzi subito dopo quel fatto ancora appellandosi alla letteratura («l’opera d’arte è sempre frutto di un avventuriero che rimane a casa», 14)[3]. In questo che per me è un rifiuto di esodo (intendo di abbandono di un mondo per cercarne un altro ignoto) vedo le origini di un distorto uso della letteratura. A mio parere, rinunciando ad altre possibili (non certe) soluzioni della crisi ipocondriaca, la letteratura è diventata per Arminio surrogato di un’esplorazione più diretta e ampia del “mondo”. E invece di essere uno dei possibili strumenti per proseguire tale esplorazione, rischia di diventare letteratura nell’accezione negativa del termine, e cioè ricerca che invece di aprirsi all’esperienza umana possibile e di misurarsi con gli ostacoli reali che l’atrofizzano, finisce per circoscriversi, specializzarsi a discorso che circola prevalentemente tra addetti al sapere letterario istituzionalizzato, esaperando alcune sue funzioni tipiche ma non necessariamente uniche (l’immaginario, la finzione, quale quella di far parlare «un morto di nome Arminio»).

Nel risvolto di copertina di Circo dell’ipocondria Cortellessa afferma:«La prosa di Arminio è perfetta. Non, o non solo, in senso letterario: immagini e idee sono il suo respiro. Altri testi cercano di dire delle cose, le “traducono”; e vi si può aderire o meno, dunque, sul piano della loro verità. Ma qual è la verità di una scrittura, se non la scrittura stessa? Nulla al di là di quel filo sottile in cui consiste, mentre leggiamo, tutto l’universo».
Non ho riserve a riconoscere che il tuo libro dal punto di vista letterario è coinvolgente, denso di provocazioni, varie spanne al di sopra della produzione media, «intenso», come tu lo definivi in una e-mail che mi hai mandato. Ma – vabbé che dovrei chiederlo a Cortellessa - è davvero «perfetta» questa tua prosa? E, ammesso che lo sia, perché non dovrebbe essere interrogata sul piano delle verità o non verità che porta dentro di sé; e non solo per una improbabile verità in sé della scrittura?
Non penso, cioè, che la verità di una scrittura sia (consista) soltanto nella «scrittura stessa», cioè – se intendo bene - nella forma in sé separata dal resto: retoriche, idee, ideologia, storicità, vita sociale e via seguitando; e cioè dalle verità o falsità che un testo contiene anche sul piano dei saperi che lo scrittore comunque utilizza e a cui dà una determinata forma, diversa da quella che gli dà uno scienziato o un musicista.
Per quanto «originale» e bella o brillante possa essere la tua prosa, per me non accoglie tutta la verità e solo verità. La forma che hai dato ai tuoi pensieri e alla tua esperienza di ipocondriaco e di scrittore (struttura aforistica, alta metaforicità, frequente paradossalità del discorso, frammentarietà, squisitezza e “poeticità” delle immagini) copre un impianto di idee spesso debole e approssimativo. E tende a supplire questa deficienza con un di più di estetismo invece che con un di più di scavo e controllo dei saperi da te accumulati.
Detto in sintesi: l’esibizione di una verità estetica prevale sulla comprensione della verità tout cort (che non sempre è estetica); e nel tuo caso, lo scrittore (intendo colui che cerca verità scrivendo della sua esperienza o d’altro) cede volentieri il passo all’attore o all’intrattenitore, che le verità intuite o ricevute di riporto da altri le espone spesso senza accertarsi troppo della loro validità.
In nome della verità estetica mi pare perciò che sacrifichi molte cose e la letterarietà della tua scrittura fa la parte del leone. Provo a fare degli esempi come mi vengono.
La tua scrittura si fa terribilistica quando tratta il tema dell’ ipocondria e della paura di morire. Perché privilegi il terribilismo invece della pacatezza o della distanza? Perché Arminio sorvola così velocemente un atteggiamento diverso dal suo di fronte alla morte («Poco giova pensare che quando siamo morti non ci siamo e quando ci siamo noi non c’è la morte» (20)? Perché – risponderei – il tono terribilistico è per lui più eccitante dal punto di vista estetico.
Arminio vuole di continuo - e lo fa per programma («Arminio considera che raccontare se stessi non deve diventare un’abitudine. Bisogna raccontarsi quando l’altro non se l’aspetta»,54) - sorprendere (mi viene in mente Giovan Battista Marino…): quando assume il punto di vista straniante del morto o del morente (19-20), quando ricorre con frequenza alle battute («Però ha l’organo per godersi la morte? Diciamo che non mi lamento» (15); «Arminio non è mai stato un sapiente, uno che dice poche parole oppure niente», 54; «La cosa più brutta della vita non è la morte, ma il fatto che non possiamo godercela», 60; «Arminio è stufo di dover morire», 71; «Dà l’idea di essere ambizioso. Si sbagliano, lui è ambiziosissimo, 87;) o ai paradossi («Arminio non ha nessuna difficoltà a dire che è uno psicotico», 88) o alle immagini “squisite” e surrealiste («Il corpo è una frana di forbici e coltelli. Siamo dentro questa frana tenendoci fermi su un batuffolo di cotone»,43; «La via lattea trascina le sue costole come un fiume in piena», 58).
Ma potrei ancora elencare: il ribaltamento/riaggiustamento dei luoghi comuni («Tutto è perduto, tranne il dolore», 23), l’uso “serio” delle metafore («un amico gli diceva che aveva una voce come se fosse uscito dall’oltretomba. Forse sta scrivendo con questa voce, forse non si può che scrivere con questa voce, 49), il gusto per l’iperbole astratta («non si sente che stiamo tutti col pavimento sfondato», 49), la continua tentazione della rima interna anche in una scrittura che si vuole saggistica («ma il corpo resta vero ed è per questo che finisce al cimitero»,23; «il suo scrivere è sempre una sala operatoria che rischia di trasformarsi in obitorio», 23). E, infine, la predilezione per l’aforisma è così assorbente che la fai coincidere immediatamente con la poesia (23), come se mancassero valide forme poetiche rivolte più alla narrazione distesa o alla riflessione non concentrata in illuminazioni.
Il problema per me è: ciò che brilla nella forma di questa scrittura corrisponde a uno stato di cose, a una verità o a una “realtà”? O per far venire fuori alcune di queste cose, verità, “realtà” ci sarebbe bisogno di altre forme? Mi pare giusto portelo, perché troppo spesso nella tua scrittura i significati non mi appaiono esplorati fino in fondo e la manipolazione letteraria dei significanti domina la scena. Perciò durante la lettura mi sono chiesto ripetutamente: ma dove va a parare? e, dopo la sorpresa, che resta? cosa nasconde questa “perfezione” letteraria? E ho cercato di coglierne i limiti.


Un primo limite l’ho colto nel rapporto con la “realtà”, e più precisamente con il luogo fisico e geografico che fa da sfondo all’ipocondria di Arminio, «l’Irpinia terremotata e malricostruita» (Cortellessa), la stessa che ci mostri in immagini nel dvd La terra dei paesi.
Nel n.1 di Poliscritture, Agostino (Pelullo), anche lui di Bisaccia, ci ha dato un’idea “realistica” di questo luogo. Ricordando l’anniversario del disastroso terremoto del 1980, ha insistito su cose concrete: il rifiuto da parte di stampa e TV di ascoltare i testimoni del terremoto attivi nei soccorsi alla popolazione; la rimozione dal dibattito pubblico della questione della gestione «affaristica e camorristica» dei fondi allora stanziati dal governo; l’inefficienza dei politici nel delineare un qualche futuro per quelle zone (La Regione Campania diretta dal diessino Bassolino, paralizzata di fronte al problema della cosiddetta «emergenza-rifiuti», ha brillato solo per il tentativo di privatizzare l’acqua). E ha pure suggerito la possibilità di documentarsi sul sito «Osservatorio sisma» sui reati (omicidi di giornalisti e magistrati scomodi) legati al controllo di quegli appalti da parte della Camorra.
Il tuo libro (ma anche il dvd su cui dirò poi) dice poco sull’Irpinia di oggi e quasi nulla sulla sua storia, sull’economia, la politica, il lavoro, l’ambiente di queste zone. Aggiungo subito a scanso di equivoci che forse avrai già scritto di queste cose sui giornali. Ma cosa significa che in Circo dell’ipocondria l’approccio diciamo più diretto alla realtà di questi paesi manchi e prevalga in maniera massiccia la metaforicità?
Non chiedo a un’opera letteraria di essere un reportage e non la misuro esclusivamente in base alla presenza o meno di contenuti per me “importanti”. Importante è anche l’ipocondria di Arminio. E posso pensare, come dice Cortellessa, che ci sia una «profonda relazione» tra «il corpo di Arminio e la sua terra» tanto che «l’uno è sintomo dell’altro». Ma questa relazione non è sufficientemente sviluppata. E la ragione forse sta nel fatto che tu parli addirittura di identificazione tra il corpo di Arminio e l’Irpinia («Il paese è appoggiato su una zolla di terra che scivola, si spacca e porta in superficie le sue fenditure. Come si fa a non temere la morte in un paesaggio così malato? Come si fa a non temere la morte quando il corpo del paesaggio e il nostro corpo sono una cosa sola?», 103).
Ecco, questa equazione tra ipocondria di Arminio e ipocondria dell’Irpinia mi pare davvero equivoca. Ne discenderebbe che, parlando della “malattia” di un individuo immaginario-reale, si verrebbe a parlare o a conoscere quasi automaticamente quella (probabile ma tutta da accertare) degli abitanti del paese o di quei paesi. Mi sembra una soluzione inaccettabile. E vedo in un uso così strabordante della metaforicità del linguaggio letterario un rischio di evasione.

Considero poi problematico anche il passaggio che verso la fine del libro sembra delinearsi: dall’autoanalisi dell’ipocondria alla «paesologia». La «paesologia» non sarà «una trovata» (14), ma uno come me la intenderebbe all’incirca come conoscenza dei paesi (come la teologia vuole essere conoscenza di Dio e la psicologia della psiche). Qualche esempio c’è stato in passato. Ho in mente un «paesologo» sui generis come Danilo Montaldi, scrittore forse sconosciuto alla tua generazione, ma ben noto a Celati, tuo autore di riferimento. Nella bassa padana cremonese degli anni ’50-’60 egli indagò un mondo che, a causa della trasformazione industriale, andava scomparendo come forse accade oggi ai paesi dell’Irpinia. E in Autobiografie della leggera, libro oggi introvabile, facendo parlare e trascrivendo le storie di vita di vagabondi, ladri, prostitute, costruì narrazioni di grande intensità estetica e non solo di valore sociologico-politico. Oggi a un «paesologo» chiederei proprio questo: descrivere e analizzare un territorio, intervistare e far parlare la gente, andare al di là del paesaggio (dell’apparenza), studiare le trasformazioni che si stanno verificando nelle strutture politiche, economiche, antropologiche, storiche di zone dell’Italia e, se possibile, del mondo. Montaldi lo seppe fare da «poeta sociale» (Cortesi), quindi senza rimanere inceppato dagli idealismi e dagli scientismi che dominavano allora la cultura italiana. Se i poeti d’oggi non sanno più farlo o neppure sono attirati da un lavoro del genere è perché risentono di un clima culturale che ha rimesso in primo piano l’io individualistico, chiuso in sé, e vedono gli altri come una semplice reiterazione di quell’io. Tu – scusa la schiettezza - mi sembri un esempio di questo modello di scrittore. E il tuo passaggio alla «paesologia», per me positivo, rimane incerto.
Esso, infatti, in Circo dell’ipocondria si presenta ancora come una mossa psichica fatta non per accostarsi agli altri, ma per spiazzarli («Definendomi paesologo li ho lasciati tutti, me ne sono andato da un’altra parte e la poesia mi ha seguito»,14). Oppure per distanziarsi dal paese («quando diventai paesologo il paese sparì dalle mie costole, dove era sempre stato attaccato»,14). Resti così ancora dentro la crisi interiore dell’io – problema (irrisolto) che domina il libro.
La «paesologia» non sembra neppure una sorta di “scienza” dei paesi morti o di quel che di malato (ma ancora vivo) persiste in essi mentre stanno scomparendo; e mi ha fatto pensare a quel culto del «desueto» che Francesco Orlando ha indagato anni fa in letteratura [cfr…].
Perciò ti pongo un altro problema: la «paesologia» di Arminio è in continuità o in rottura con la sua ipocondria? Riesce o no – magari per le vie traverse e sfuggenti della poesia e della letteratura - ad aggredire (nel senso di ‘accostare’, ‘avvicinare’) almeno la (probabile, ripeto) ipocondria sociale dei paesi del Sud terremotati e altro ancora che quell’ipocondria potrebbe occultare?
Secondo me nel libro il legame tra Arminio e paese resta ancora troppo sfumato, tutto metaforico e introverso. Rari e rapidi sono i riferimenti alla vita reale e grigia di paese («avrebbe potuto verso le sette fare un’uscita», 22; «come si fa a non vedere che la gente è incarcerata nel suo domicilio»(47). E solo nelle ultime pagine, quando accenna al barista, al manovale scapolo, a Vito (pp.103-104) si può volenterosamente pensare che stia crescendo in lui quest’attenzione all’esterno e agli altri, che andrebbe sostenuta non solo con gli strumenti psicologici e letterari da te adottati finora, ma anche con strumenti antropologici, sociologici, storici.
Altrimenti il passaggio dalla “protesi scrittura” alla “protesi videocamera” (già tentato a suo tempo da Pasolini) allenta, ma non scioglie la crisi dell’io nei confronti degli altri, del paese, della “realtà”.
Il video La terra dei paesi accluso al tuo libro, pur suggestivo, si mantiene intenzionalmente sullo stesso piano di frammentarietà e di leggerezza angosciata, estetizzante e senza spessore storico della tua scrittura: sfiora i «luoghi assorti e silenziosi o bisbiglianti chiacchiere senza fine» (Cortellessa), ma non li penetra, non dà voce alle persone che incontra, non si fa dialogo-confronto con loro né con il passato.
Dico intenzionalmente perché tu giustifichi questa scelta:

«Mi sono basato semplicemente su quanto si offriva ai miei occhi segnalandomi la necessità di farsi imprimere sul nastro. Non avevo obblighi di denuncia rispetto ai tanti mali della terra in cui vivo e neppure di compiacimento rispetto a tante bellezze diffuse nel paesaggio. Il cuore della mia ricerca è stato proprio il paesaggio, colto nei suoi diversi aspetti e nelle diverse stagioni. Ne viene fuori un videoritratto fatto in prevalenza di inquadrature fisse e di altre in cui il movimento non è mai concitato. Senza la pretesa di raccontare tutti gli aspetti della vita di un territorio passato dalla c iviltà contadina a una sorta di postmodernità posticcia, ma cercando di presentare alcune tra le migliaia di scene che ogni giorno si squadernano davanti a noi. La paesologia non ama le astrazioni» (terza di copertina)

Rifiutando però le «astrazioni» (indegne dei poeti o trascurate dai poeti d’oggi?) e fermandoti ai frammenti («L’ombra di un gatto su un muro, un vecchio che tiene la televisione su una botte, una Mercedes parcheggiata in un salotto, le pale eoliche, i giocatori di carte, le processioni, gli uomini seduti a parlare, i bambini che giocano, le vacche, le pecore, le voci degli ambulanti», terza di copertina), proponendoti di «percepire il farsi e il disfarsi delle cose», non solo non espliciti e controlli la filosofia che sta sotto a tale atteggiamento, ma anche i suoi limiti. Non è detto che così si vada a fondo delle cose. I sensi non colgono tutto e possono anche ingannare. Né i rapporti di sottomissione e di dominio tra gli uomini si percepiscono sempre con i sensi, ma con l’intelligenza. Tu dici pure: «tutto è importante e va lasciato vorticare insieme al resto senza fretta di comporre un mosaico». Ma le sensazioni che hai raccolto viaggiando per quei paesi sono già altra cosa da quelle registrate dalla tua videocamera; e riversandole in un dvd, le hai già composte in un tuo mosaico, le hai montate secondo un certo disegno, che non ti curi di esplicitare e ragionare.
Non riflettendo su questi problemi, trascuri anche ad esempio, lo scarto tra Arminio - un paesano, un prigioniero, un nevrotico ma con la televisione (poca), le mail, i blog, le chat (48) – e gli altri; e la problematica non trascurabile che esiste nel rapporto tra osservatore e osservati.
Infine tutti noi oggi, anche se non lo vogliamo, ci troviamo in posizione subordinata dentro un sistema mondiale che ci chiude sempre più alla “realtà”, che percepiamo sempre meno con gli strumenti di cui avevamo imparato a disporre (la scrittura, ad es., che fino agli anni Settanta, attraverso istituzioni e centri politici, era meno separata dal reale e dal sociale di quella d’oggi). Ci viene imposta di forza un’apertura a un mondo per molti versi a noi sconosciuto e storicamente costruito dal colonialismo (e dalle lotte anticoloniali). E proprio attraverso altri strumenti (dalla TV al computer alla videocamera amatoriale), anch’essi non neutri (come non lo era e non lo è la scrittura), anch’essi predisposti per più raffinati e subdoli effetti di dominio. Non possiamo, dunque, tranquillamente adagiarci in un rapporto immediato coi luoghi che abitiamo e che ci stanno cambiando sotto i piedi. (E in Poliscritture non a caso, per affrontare queste questioni, abbiamo una rubrica intitolata problematicamente luoghi/non luoghi).

Se il legame che hai con l’Irpinia come luogo è opacizzato dalla forma metaforica della tua scrittura, essa mostra per me nelle sue idiosincrasie esistenziali, culturali, filosofiche la fragilità del tuo «circo» .
La prima idiosincrasia è quella verso la “politica”. È per me la debolezza più rilevante del libro sotto l’aspetto saggistico, un vero «buco nero» (51) generazionale che ritrovo in molti scrittori tuoi coetanei. Dichiarano di rifiutare - giustamente – la politica come professione che amputa socialità e intelligenza per farti rientrare nell’élite arrogante e stupida dei potenti. Bene. (Vorrei controllare però le pratiche che spesso intrattengono sottobanco con i politici vituperati in privato o, tramite università, fondazioni, case editrici, con la “parapolitica” egemonizzata dai politici). Ma perché mettere tra parentesi ogni riflessione seria e indipendente (fortissima in passato, residuale, ma non trascurabile oggi) sulla politicità propria della scrittura?
Arminio banalizza la politica («tutti volevano le stesse cose»,13). Ha anche una vaga ed erronea idea della sua nascita storica («Per millenni abbiamo avuto dei tiranni che guidavano la danza: solo nel Novecento è comparsa, in alcune zone del mondo, l’idea che le persone potessero decidere che cornice mettere intorno al quadro della loro vita», 21) e non dà spiegazione della sua “improvvisa” scomparsa («nel giro di pochi decenni già ne stiamo celebrando la sua scomparsa e volatilizzazione», 21). (Vorrei ricordargli che sul questo tema ha ben riflettuto negli ultimi tempi Mario Tronti, ad esempio ne Il tramonto della politica). E neppure si chiede da quali tragedie (guerra permamente ad es.) sia stata sostituita.
La politicità, presente nel far poesia, si riduce per lui a un’utopia anche rispettabile («una nuova comunità in cui sogno e ragione vadano insieme, una comunità mai vista, una comunità poetica mai vista», 39). Ma subito la inquina con richiami che mandano echi per me sinistri («Bisognerebbe dare gloria allo sperma, gloria alle grandi preghiere, ai supplizi, ai versi memorabili» (39). Lo psicologismo domina la sua visione del mondo («L’uomo del Duemila è l’homo timens, 41) assieme all’individualismo («Ognuno ha detto addio all’idea di stare con gli altri. Chi ancora ci prova dopo un po’ ne rimane deluso» (41). Arriva così a una conclusione approssimativa e indigeribile: «Questa situazione provoca una generale scontentezza, in chi è ricco e in chi è povero. In un certo senso siamo in una società comunista: il comunismo degli scontenti» (41), che mi ha fatto pensare ad un altro strambo “comunismo”, quello dei «morenti», teorizzato anni fa dal filosofo Sgalambro.[4] La tragicità di politica e storia sono aggirate col ricorso a un leopardismo mite («Ma intanto dovremmo metterci buoni, a terra, granelli di polvere e formiche, e da lì farci teneramente compagnia», 21), depauperato dalla fraterna e attiva solidarietà de La ginestra e tendente alla misantropia e all’indifferenza («le cosiddette vicende sociali, le vicende amorose, le vicende comunemente umane non sono per lui», 31) o a un disprezzo non meditato per i «cosiddetti uomini d’azione», che si sentirebbero tutti «presuntuosamente vivi e potenti» (70).
Sulla base di queste fragili riflessioni storico-politiche Arminio si volge, come tanti oggi, verso “l’invisibile”: «Scrivere è annusare l’invisibile. È un odore che non sentiremo mai, ma non si rimane del tutto a mani vuote come nelle conversazioni sociali, nelle riunioni politiche, nelle chiacchiere da marciapiede» (37); «A un certo punto ho capito che scrivere è annusare la rosa che non c’è, che non ci sarà mai» (102).
E, dribblando alcune sue affermazioni di sapore nichilista («Niente, in fondo a noi stessi non c’è niente», 13), sulla scia di un diffuso heideggerismo («nessuno quaggiù ci può salvare»,51; «il mondo della tecnica e del denaro lavorano al buio, alla cieca», 53), si orienta verso una generica «nuova religione» (63) che oscilla - mi pare – in varie e confuse direzioni: - verso una teologia altrettanto generica e ignara degli effetti anche tremendi che hanno avuto le teologie (dichiarate o travestite) nella storia umana («Una nuova spinta teologica potrebbe orientarci nell’infinito caos che ci aspetta»,51); - verso un «pensare per immagini» (53) consolatorio, terapeutico e antintellettuale («Per scrivere non serve l’intelligenza del pensiero ma quella degli occhi. Pensare per immagini dà spazio alla farmacopea della parola, (53); - verso una poesia-religione («Forse la poesia è una forma di riparazione, un modo per ricreare la chiarezza che continuamente in noi si disperde. La lingua è luce, fiamma inversamente pentecostale. E il suo tragitto non può che essere verticale, dalle costole al cielo. La parola diventa incandescenza che usa il nostro corpo per far luce e non sappiamo dove ci conduce» (53).
Ammetto che le religioni possono aiutare (non sempre) ad attraversare il mondo in maniera più lieve, che molti religiosi d’oggi sono in sostanza burocrati senza fede. Sono cose che con rigore storico e dall’interno del mondo cristiano ci ha ricordato Michele Ranchetti in Non c’è più religione (Cfr. intervista su Poliscritture numero zero). Respingo però il tuo adagiamento antintellettuale («Non abbiamo bisogno di intelligenti che usano la loro intelligenza per sputare sul cuore degli altri» 38). Non capisco perché se «gli scrittori devono mettere la propria faccia in ogni riga che scrivono» (38), non debbano metterci pure l’intelligenza. Altrimenti si va per la solita tangente che porta dalla crisi dell’io a generiche riscoperte del corpo («il nostro corpo, il corpo che abbiamo adesso, non quello che avremo domani» pag.?...), che non spiegano come usarlo altrimenti, a forme spiritualiste o a strani mescolamenti parareligiosi («Scrivere è un martirio oppure non è niente», 38), o paraletterari («Nessuno ha usato la parola meglio di Cristo, nessuno ha costruito metafore altrettanto potenti e durevoli, 51).
Serve oggi – ti chiedo concludendo questa troppo lunga lettera di critica a Circo dell’ipocondria - nello sbriciolamento planetario di ideologie e comunità, accusare gli altri di restare «incapsulati in un’idea rigida di [sé] stessi» e invitarli a «sbriciolar[s]i» (38) oppure sostenere che «noi oggi abbiamo bisogno di esseri umani che sanno essere infinitamente miserabili» (38)? (Altra cosa sarebbe modesti, tenaci. Ma «miserabili»! Ne abbiamo a iosa in tutti i campi.)
Serve oggi parlare della morte in termini che a me paiono avere sotterranee ascendenze culturali con le ossessive meditazioni cattoliche (meglio controriformiste) e con quel tono terroristico sia pur divertito («Avverrà davvero, questo avverrà anche per voi» (69) che ha – è il caso ancora di sottolinearlo - ben poco di leopardiano?
Il mondo è «un luogo inclemente» (49) e il tempo (mai storico per te) è «orribile» (59), ma per questo bisognerebbe evitare le fughe. Non è vero che «la cosa migliore da fare è andarsene a dormire» (49) magari tra le braccia di una generica «nuova religione» o preferire soluzioni estetiche, disarmate e impraticabili («Arminio pensa che dobbiamo chiedere aiuto, dobbiamo uscire in piazza con un cartello al collo con una scritta di questo tipo: sono un disgraziato, voglio essere amato, sono stufo di sentirmi solo», 58).
[1] Per tutto il libro giochi sull’ambigua indistinzione tra personaggio e autore. Nel mio scritto parlerò anch’io di ‘Arminio’ e basta, lasciando al lettore il compito di stabilire, se vuole, le possibili differenze tra i due, che ad ogni buon conto ci sono.
[2] In proposito mi soffermo con una nota personale: io, che mi sono azzardato a ipotizzare una «moltitudine poetante» per insofferenza agli stereotipi più abusati con cui i poeti parlano di sé, questi stereotipi me li ritrovo quasi tutti nelle tue pagine: «il poeta è una creatura patologicamente bisognosa di amore», 71; contrapposizione della «pletora dei falsi poeti» (72) agli «spiriti più luccicanti» (72) ; «il poeta è fuori dall’umano e come tale è un pericolo»,72).
[3] Anche qui una nota personale. In una poesia di Salernitudine, una sorta di ripensamento poetico di quella che forse fu la mia giovanile ipocondria ho scritto:

Emigrare è conoscere dalla parte delirante del celeste
l’oscuro schianto del comune presepe.
Voi, i rimasti, dalla parte interrata
ne soffrite lo stesso l’agonia.

Ma subito aggiungo un pezzo da un’altra raccolta inedita, Immigratorio: una sorta di dialogo conflittuale tra parti di me, in cui a Karl Bis, figura “rimproverante” di chi non ha lasciato il Sud, l’immigrato Vulisse risponde rivendicando, comunque, malgrado sofferenze e fallimenti, il valore di un rifiuto dell’ipocondria dell’amico e del Sud e la scelta (oggi direi) dell’esodo:
:
da gabbia in altra gabbia scorro / alla tua però / e alla maschera cupa e folle / che m’appiccichi al volto / per proteggermi dici / sfuggii
dal presepe che ci accolse appena nati / fratello della mia opacità / non intenderai questo dolore da supermercato / le mie acrobazie tra ombre di pensioni / ragazze in fuga e strade gelide / né il vento di folla che mi sfonda e porta via / sotto cieli inerti / fissati in fredde cupole allo sguardo / la speranza solo nelle sue folate ripongo

Questi richiami per farti intendere che colgo una crisi vera – esistenziale, di rapporto conflittuale con gli altri e col “mondo” – che precede la tua scrittura, molto vicina a quella che dovette essere stata la mia da giovane. Ma anche per marcare la distanza tra la soluzione letteraria che tu hai dato ad essa e la soluzione più ibrida, inquieta e aperta agli altri (e quindi “politica”) a cui mi avviai io.
Le osservazioni, le obiezioni, le critiche che vado facendo sul tuo libro nascono anche da questo diverso retroterra materiale (e anche corporeo, dunque), emotivo, culturale e intellettuale. Diversità – inutile forse sottolinearlo – che non significa superiorità di esperienza o di cultura da parte mia, eccetera.


[4] Trascrivo da una mia lettera del ’95 a Luca Ferrieri cosa ne pensavo allora:

«Davvero dovrei del “rispetto” ad un filosofo che mi offre un frullato indigeribile (arrrogante, eurocentrico, a volte involontariamente comico nei suoi tic antidemocratici) di Leopardi, Nietzsche, Heidegger, Spengler, ecc.?
Qui del comunismo resta solo la parola: un sacco vuoto, oggi facilmente riempibile - come fa Sgalambro - delle sue mortuarie ossessioni.
Ma non offre di meglio in giro il mercato librario? Beh, mille volte meglio Preve, Negri; e persino Furet - lavorando su un piano storico - offre spunti più fecondi per un bilancio. Forse mi sfuggono molte cose. Ma di questo dialogo salverei (con riserve) soltanto il suo astratto andare controcorrente.
Pazientemente ( e più per rispetto a te che a Sgalambro) mi sono riletto l’opuscolo ed eccoti le mie note di lettura :

- “Questo esigo anche dalla donna con cui vado, non i suoi soli umidori ma che mi parli del problema della verità”(9). Misoginia.

- “una natura elementare e proterva”(10),”Tocchiamola pure con le nostre mani di assassini [la natura]. non la scalfiremo di un unghia” (11). Ideologizzazione. Sembra Leopardi, ma c’è troppo cinismo: gli manca la generosità illuministica de La ginestra ( e poi siamo alla fine del ‘900 e dopo la bomba atomica..)

- “La verità è contro di me, ma io...sono sempre al suo fianco”(11);”Già un filosofo come Husserl notava che la comunità dei filosofi... costituisce..il filo conduttore della storia europea nei suoi momenti più alti”(16);”Una conflagrazione storica ridurrà l’Occidente in frammenti. L’ecpirosi del cosmo storico dissolverà la più bella forma che la storia abbia mai avuto...Quello dell’Oriente è solo un modo di vivere...L’occidente si impone. Se solo l’Occidente è una ‘civiltà’ e tutti gli altri (l’Oriente, ad esempio) non sono che modi di vita, il tramonto dell’Occidente equivale al tramonto della civiltà come tale (21-22); “sì, i veri filosofi sono naturaliter comunisti [per]il rifiuto delle disparità metafisiche(là dove gli altri vogliono che il comunismo sia da porre nella vana eliminazione delle disparità ‘sociali’)”(16);” Ma avrai capito come da questo comunismo ciò che più mi attendo è proprio l’annichilirsi delle disparità metafisiche sembrandomi quelle sociali ed economiche su cui hanno insistito i suoi teorici come un cambiare solo di abito. L’intelligenza, il gusto, il talento, la bellezza, la forza, la ricchezza interiore: è lo sparire di queste disparità che io inseguo”(35);”non può esservi, letteralmente, comunismo dei beni materiali la cui pazza idea è evidente appena poco poco ragioni”(36);”..intendere il comunismo come l’esaltazione dell’individuo, di questa enorme frivolezza! Sì, barbarie, solo barbarie!”(17);”Io invece ti confermo che il senso di contemporaneità agli stati finali del nostro sistema solare condurrà a una comunità di uomini duri e superbi, orientati a imporre un senso alla fine del genere umano che per la loro forte immaginazione anticipatrice è già avvenuta...E’ a questo comunismo che mi riferisco. Non a quello della ‘merde’, al comunismo degli straccioni e dei miserabili”(49); “Io intendo con il termine ‘solo’, un’educazione all’alterigia, alla superbia, a un pensiero, voglio dire, che non ha bisogno di aiuto ma, al contrario, si impone e basta” (46): qui vedo solo tracotanza filosofica, basso spirito corporativo decorato da linguaggio specialistico, eurocentrismo stupido, differenzialismo culturale della Destra (vedi Benoist in Francia, ecc.)

- affinità tra Il Capitale di Marx e Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenauer (12): è la storicità dell’analisi di Marx che Sgalambro disprezza (“il presupposto [del comunismo] è che moriamo tutti assieme. che muore la specie, cioè”;“Io sono un comunista disperato. Traggo cioè l’idea di comunismo.. non dalla storia..ma contro la storia.. da un’altra parte,15)?
E le differenze di prospettiva? Per Sgalambro:” Ma quale fare! Qui tutti vogliono fare, ma per chi, perché, per cosa? Il lampo accecante di un cielo che si spegne e la Grande Fiammata degli amici stoici.. ecpirosi o entropia, che vuoi che importi fare..! Prosterniamoci davanti a questa anticipazione(46);” Colgo in ciò che sostieni l’dea di un comunismo metafisico, una condizione non dissimile da un’estasi. Un annullarsi, per così dire, l’uno nell’altro..”(17);
Qui si parla di eletti, altro che di modi di produzione! A Sgalambro non va bene neppure Kant: sì, “i rintocchi [della fine del sistema solare] si sentono nella grande Storia generale della natura e teoria del cielo”(13), ma Kant non ha avuto l’accortezza di essere fino in fondo il precursore di Sgalambro, cioè “il filosofo della fine del mondo”(14)
[aggiunta: che di “fare” si sia parlato troppo in ambito marxista e che anche Marx si sia illuso di poter uscire facilmente dalla filosofia per cambiare il mondo, fare, ecc.. vero. Ma mille volte più convincenti le critiche di Balibar in La filosofia di Marx]

- Etica, Politica. “Ogni azione diventa etica.. proprio in quanto si rapporta alla fine del mondo. Da qui deriva la sua nobiltà e il senso di una superiore necessità.. Per colui per il quale il mondo è finito e le stelle si stanno già spegnendo, stringersi all’altro nel senso di una superiore comunità è il grande fatto etico. E’ come se ci abbracciassimo in un addio lunghissimo ma inevitabile”(14-15)
Anche qui sembrerebbe un Leopardi ginestriano, un pensiero controcorrente rispetto alla pappa progressista, ma - come già detto sopra - quanto snobismo, quanta puzza sotto il naso! Sgalambro non auspica un abbraccio del genere umano, ma solo fra eletti. Gli altri a cui “stringersi” devono avere il “senso di una superiore comunità”. Che comico immaginare un Giudizio Universale alla Sgalambro, con il Filosofo in veste di Dio che seleziona i buoni “comunisti morenti” dai cattivi (gli “speranzosi”?) oppure descrivere gli inconvenienti empirici dell’”addio lunghissimo ma inevitabile” della “comunità dei morenti”...No, anche se non ci ho capito granché, preferisco di più La comunità che viene di Agamben. Questa di Sgalambro, che muore soltanto e esaspera fino al ridicolo la cattolica preparazione alla buona morte, è per snob. Mi chiederei inoltre: ma, anche da una prospettiva apocalittica (depurata però dal dogmatismo misticheggiante di Sgalambro e soprattutto dal suo aristocraticismo - penso ancora a Leopardi e ad un libro per nulla considerato di Negri su di lui, Lenta ginestra) che volesse considerare le vicende naturali e umane andando “sino alla fine del genere umano”(34), non sarebbe meglio chiedersi cosa di buono si può costruire per tutti i viventi nel frattempo, cioè fin quando la fine non si compie?

- E che dire di quest’apologia della tirannide: “Il tiranno ti libera dalla tua volontà e in qualche modo ti inizia al nulla...”(19)? Che dire di questo delirio guerrafondaio che , sull’onda del nazista (oltre che rigoroso pensatore “da rispettare”, ovvio!) Schmitt, afferma che “i mezzi di annientamento di massa corrispondono al ritorno in grande stile del ‘valore’ al posto dell’’essere’”(20)? Insomma, viva “il mistero di Tiberio” (19). E a quando un “mistero di Hitler”? Ma si sa: Sgalambro si mantiene sul Classico e non si sporca con questioncelle novecentesche!
Lui ammira l’essenza ‘criminale’ della filosofia”(22), ma al passato: guarda a Socrate, a Bruno a Vanini, soddisfattissimo perché allora “le cose andavano bene per la filosofia”(22). Al presente non si compiace neppure per “la rinascita odierna dei cosiddetti ‘integralismi’ religiosi”(23) [in Europa, ovviamente!]. Essi imitano solo in modo esangue le vere lotte: quelle dei contadini tedeschi che nel ‘500 [ ahi, povero Engels!] morivano esclusivamente “per la transustanziazione”(23). Insomma, ci vogliono dei “salvatori dell’anima e non ‘politici’”(23), che, liquidando “l’attuale fase democratica della filosofia [che ci]sta conducendo alla fossa” (25) , affrettino i tempi e facciano piazza pulita:
- dei libri [Sgalambro non nomina la TV, di cui forse non gli è giunta notizia..] non più temuti ma innocui, benedetti dalle istituzioni (27) e soprattutto inaddatti ormai a ricreare “aura”[ahi, Benjamin!];
- della scuola, che sa solo “abbassare l’intelligenza e insegnare.. a stare tutti appiccicati assieme”(31).
Così, in questa gioconda atmosfera da pompe funebri, fra lazzi contro la democrazia e inni alla bomba atomica, si arriva al “comunismo”! Infatti “Al comunismo.. può condurre solo un regresso organizzato.. un sano ritorno dei più all’ignoranza”(32).[ Sono avvisati tutti i Ministeri di P.I.: stanno lavorando per il comunismo (di Sgalambro)..]
E non solo: diffidando dei diseredati e sostituendoli “superbamente” con i “morenti”(32), non solo “l’idea di comunismo nasce dolcemente”(32) - poiché non nasce mica”dall’idea mitologica di ‘capitale’”(33) con tutte quelle porcheriole di “lotta di classe”, eccetera [Volevo ben dirlo! Solidarietà, libri, scuola, democrazia: no! Capitale, denaro, produzione sono mitologie. Oppure “una ingiustizia che tu non puoi toccare, [che] equivale all’essere stesso e la toccherà la fine del mondo soltanto”(36)?] - ma si viene condotti [paghi uno, prendi due!] a Dio, si diventa suoi contemporanei (33). L’aveva già capito un altro precursore di Sgalambro: Descartes, che aveva provato l’esistenza di Dio e la realtà della creazione (38). Sgalambro postilla così:” Fin qui Descartes. Lo stesso si dica se al posto di Dio metti la fine del mondo”(38). Tutto, alla fine, si tiene: comunismo, morte, dio, ondata nirvanica (40), “tranquilla stupidità di tutti”(43), “comunità di uomini duri e superbi”(48). Siamo al capolinea del Nazismo filosofico!
[Nota 2007: pensando agli attuali discorsi sullo “scontro di civiltà”, si vede bene cosa alimentava oscuramente il pensiero di Sgalambro!]

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